Recensione | Collateral Beauty

Un film prima inaspettato, poi enormemente sottovalutato, e che alla fine ci scioglie sentimentalmente portandoci alla conclusione che questo è un film da apprezzare (e, prima che scegliessi di togliere i sottotitoli dalle mie recensioni, nel titolo si poteva proprio leggere “un film da apprezzare”). E sappiate che prima che la mia amica mi invitasse a vederlo (a proposito, grazie Stefania!), io, di Collateral Beauty, avevo detto peste e corna. Ne avevo dette e buttate di tutti i colori, e i colori che avevo buttato erano tutti neri, spenti, tutt’altro che brillanti. Ero convinto che si trattasse di uno lungometraggio pubblicitario stile populismo mode on. E invece, quando l’ho visto, questo film mi preso per mano, mi ha guardato con gli occhi seri e mi ha detto: lascia che ti racconti una storia. Lascia che smonti il tuo pregiudizio. E fin dal primo fotogramma, quello che ho visto mi ha convinto, commosso, fatto ridere, emozionato. Peccato invece che il resto della civiltà umana sia andata in una differente direzione critica: questo film lo hanno distrutto, fatto a pezzi. Tranquilli: entro 10 anni lo rivaluteranno. Come accaduto con La donna che visse due volte di Hitchcock. Anche di quello ne avevano parlato male, ai tempi dell’uscita, avvenuta nel 1957. Poi, nel 1960, qualcuno iniziò a parlarne bene. E ora è nei “100 film della storia del cinema”.

CB36372.DNGIn Collateral Beauty ci sono 5 attori che definire celebri è riduttivo. Sono i catalizzatori mediatici per eccellenza. C’è Edward Norton (American History X, Primal Fear, Birdman), c’è Kate Winslet (Titanic, Se mi lasci ti cancello), c’è Michael Pena (FuryAnt-Man, The Martian), c’è Naomie Harris (007 Skyfall), c’è Keira Knightley (Pirati dei Caraibi) e c’è Will Smith (Nemico Pubblico, La ricerca della Felicità). Ognuno di questi attori, nel loro personaggio, irradia una luce, ma anche una sofferenza. In essi c’è una vita che conserva la bellezza delle cose, ma che conserva anche, all’interno del proprio cammino, una sofferenza attraverso la quale ognuno di questi personaggi stà passando. E poi c’è lui, Howard Inlet, interpretato da Will Smith. La prima scena ci mostra lui che parla, usa la parola per esprimersi e la tinge con il suo sorriso. E’ felice e si esprime in quanto tale. Un attimo dopo, è passato del tempo e Howard ha perso una figlia. Il fotogramma successivo è l’anteposto di quello precedente. Se il primo era solare, allegro, verboso, il secondo è malinconico, silenzioso, abbattuto. C’è un primo piano che archivia su negativo il volto sofferente di Will Smith. Ed è proprio quando Howard perde una figlia, che qualcosa, in lui, succede. Egli perde la gioia di vivere. Perde la parola, perde l’emozione e la reazione del vivere. Blocca, dentro di sé, ogni possibilità di fuga dell’emozione. Tiene tutto dentro, non si esprime e smette di comunicare. Passa le sue giornate uscendo in bici e percorrendo chilometri di strada senza fine, senza obiettivo e senza interesse. Lo fà per esistere, eppure dentro non si sente vivo. La morte lo ha toccato e ora è dentro di lui. E’ riuscita ad entrare nel suo cuore, per mezzo della scomparsa di qualcun’altro.

La morte è uno dei temi di concetto di questa pellicola, e si può definire una delle colonne seminali attorno alla quale è stato edificato il costrutto di quest’opera. La morte è giunta nella vita di Howard ma anche dentro il suo cuore, e ha intaccato ogni parte del suo essere. Così non solo perde di vista ogni legame logico con il quotidiano (alzarsi, uscire, vivere), ma anche l’equilibrio sociale e lavorativo. Howard diventa il fantasma di sé stesso. Questo film narra e interpreta la sofferenza, e non si brucia per sé stesso, come un emozione vana e passeggera. Non solo, perche non si limita a contestualizzarsi attorno ad Howard. Non si chiude a riccio su di lui, ma porta a compimento un elaborazione narrativa più ampia, che accoglie una maggiore quantità di sfumature, di espressioni e di riflessioni. Egli, Howard, non è l’unico modello di sofferenza rappresentato, perche anche i comprimari dell’ex principe di Bel-Air hanno una croce da portare. C’è anche Simon Scott, interpretato da Michael Pena. Se Howard ha vissuto la morte, Simon ci và incontro, dato che è destinato a morire a causa di una malattia. E in entrambi i casi il demone che intacca i personaggi si chiama accettazione. Howard fatica ad accettare la perdita della figlia, mentre Simon fatica di accettare di dover morire.

downloadQuando Howard diventa lo specchio della sofferenza, la regia è sapiente nel narrare e distribuire il suo racconto, attraverso un elaborato maturo, che pone il sentimento e non l’emozione, due cose distinte. Non eccede con la malinconia, eppure sà quando parlarne e quando no. Sà quando dare sfogo alla sofferenza del suo protagonista, e quando invece dirigersi altrove, verso un’altra direzione, per raccontare quello che gli altri stanno facendo, o cercano di fare per lui, senza dimenticarsi di donare un protagonismo anche alle sofferenze altrui. Così i comprimari non sono solo amici e in quanto tali sono coinvolti nella sofferenza di Howard. E non sono nemmeno “risorse” di supporto accessorie per il racconto. Anche loro hanno la loro croce e anche quest’ultima, pur se con proporzioni logicamente differenti, viene raccontata. Howard vive il percorso che porta un essere umano a vivere senza pensare di vivere. In egli c’è solo una forte regressione delle emozioni, chiuse e bloccate dall’esperienza della perdita. Così i suoi colleghi cercano di darsi da fare, cercano di venirgli incontro, senza che lui sappia alcun chè. E questa è una delle componenti della sinossi che vengono raccontate.

Collateral Beauty mostra l’azione e la reazione da parte di coloro che soffrono e da parte di coloro che si relaziono con quest’ultimi. E’ un meccanismo che replica gli effetti consequenziali di causo ed effetto, di azione e reazione. La diegesi si sviluppa per mezzo di un idea che viene messa in pratica attraverso la comunicazione, la parola, guidata dal sentimento; linguaggio verbale e sentimentale che diviene, così, uno dei key element dell’opera. Comunicazione che in Howard si è bloccata e che gli altri invece hanno ancora, questo perchè la loro reazione alla sofferenze è alquanto differente. Ed è li che i suoi colleghi vorrebbero intervenire, ed è così che cercano di attuare un tentativo per sbloccare quella parola, quell’emozione che in Howard sembra essere perduta, lasciando posto all’aridità dell’anima, che ora giace appassita. Ma se pensate che questo porti al riscontro della favola lieta, al sentimentalismo retorico e al populismo delle frasi fatte, delle scene retoriche, vi sbagliate di grosso. E sappiate che ho riassunto il pacchetto di pregiudizi che mi ero fatto su questa pellicola e che Collateral Beauty mi ha distrutto man mano che procedeva.

Whit Yardshaw, interpretato da Edward Norton, con la collaborazione di Simon e di Claire Wilson (Kate Winslet) escogita un piano programmatico e in quanto tale da attuare sistematicamente, eppure con straordinaria naturalezza. E in quanto tale, per quanto calcolato possa essere, ha bisogno di una risorsa per essere realizzato: l’emozione umana, la serietà del portamento e la capacità di gestire reazioni imprevedibili. Quel che loro sanno di Howard è che scrive delle lettere che imbuca poi nella cassetta della posta. Solo che queste lettere non sono indirizzate a persone, ma a cose. Egli le scrive e le indirizza a tre argomenti: amore, morte e tempo. Così, Whit, colto da un illuminazione (derivata da un circuito pubblicitario spagnolo), mette in atto una follia cinematicamente surrealista, eppure credibile nel suo essere, nel tentativo di istigare le due caratteristiche, che in Howard sembrano perse, a risorgere: la parola e il sorriso.

ita_ov_cbe_vert_tt_intl_2764x4096_master-rev-1-691x1024Whit pensa: se prendessimo tre attori e facessimo loro interpretare ad ognuno di loro ognuno di questi temi? Se uno recitasse amore, l’altro il tempo e l’altro la morte, e se, incontrandosi con Howard, riuscissimo a convincerlo che queste tre persone sono reali, che sta davvero parlando con loro, affrontando qualcosa che giace in lui, e se lo seguissimo e lo assillassimo sufficientemente da portarlo a reagire attraverso una reazione estrema, cercando di fargli sfogare tutto ciò che ha dentro, per aiutarlo a sbloccarsi? E’ questo il disegno intelligente di Whit. Ed è qui che, così come detto, il film sembra fare “paura”. Si può pensare che scada nel retorico, si può pensare che risucchi e vomiti su schermo la banalità del sentimentalismo. Eccoci pronti ad immaginare che Howard sorriderà e ritornerà a vivere non appena questo piano avrà luogo ed eccoci tutti a piangere con il nostro stato d’animo eccitato dalla musichetta epica in sottofondo costruita per attivare l’eccitazione emotiva facile, capace di richiamare il sentimento medio, in collaborazione con il Sig. slow-motion e con la Sig.ra retorica demagogica. Invece no, chi ha scritto questo film deve anche averla vissuta, questa sofferenza di cui parla, perchè la realtà contro cui i tre colleghi e lo stesso Howard, inconsapevolmente va incontro, è dura e viene sbattuta in faccia, rifiutando ed evitando il pacchetto impostato del qualunquismo facile, dell’emozione altrettanto facile, dove il messaggio è quello retoricamente ostentato e compresso da spot televisivo.

Quando il dialogo si anima, non ci sono quote da facebook che riempiono le linee di dialogo, presi di peso da una concezione “emotiva” della parola di facile costume. La parola è intelligente, viene usata con una discreta cognizione e non ci sono dialoghi o monologhi in cui ha luogo la retorica che facilita il compiacimento del pubblico che tanto si eccita con facilità, sentimentalmente parlando. Il modello di costruzione offerto è credibile. Whit troverà, attraverso una concatenazione di eventi semplice ed efficace, i tre attori di cui necessita. Sono i tre attori dell’ombra: non li conosce nessuno, non fanno spettacoli e recitando ogni giorno dentro un teatro spento, provando uno spettacolo che probabilmente non andrà mai in scena per mancanza di fondi. E i tre, pur se pagati (giustamente), accettano questo disegno in cui il teatro può prendere vita, può sfogarsi nel palco della strada, a patto però che si confonda con la vita stessa. Nessuno deve sapere che stanno recitando, Howard incluso (ovviamente). Così dovrà sembrare reale: la scelta del contesto, la prova umana dei tre attori e la relazione in “real-time” con Howard, che dovrà fare fronte le sue difficoltà e le sue croci.

collateral-beauty-1E così quando ognuno dei tre sarà ora morte, ora amore, ora tempo, e quando ognuno dei tre lo avrà davanti, il film sbatte in faccia l’anteposto del prevedibile: tutto questo non serve ad un bel niente. Sarebbe stato facile scadere senza nemmeno rendersene conto nel cliché della rinascita facile, del sorriso che le pubblicità ci insegnano si può ottenere con una semplice azione (sfruttando l’ipocrisia della poesia, ad esempio), nelle risoluzioni della vita che “basta sorridere e voitla, la guerra finisce e i soldati abbandonano le armi”. Invece no, perchè la realtà umana è più complessa, l’emozione umana è più complessa e l’aspetto emotivo, psicologico ha una complessità maggiore e non sempre il nodo della sofferenza si può sbrogliare così, semplicemente perchè qualcuno viene da te per farti sfogare e via, tutto risolto, tu sorridi, la musichetta allegra parte e tutti iniziano a cantare in coro (e poi spunta la macchina, soggetto della pubblicità). Ma qui non siamo in uno spot televisivo, ma in un film che racconta ed esprime un interpretazione ideologica della sofferenza, dove il personaggio rappresenta semioticamente la doppia faccia del sentimento: quello ora arido, vuoto e ora caldo, riacceso. E quando il film si esprime, racconta, mostra, lo fa in modo credibile, offrendo un discreto realismo nel rappresentare determinate condizioni umane che bruciano dentro coloro che le vivono, e rifiutando categoricamente delle cellule, in fase di scrittura, che potevano offrire dei facili cliché sentimentalisti con i quali compiacere l’audience di massa, facilitando la vendita del film.

cb-08252rCosì come il lavoro caldo e sentito dei tre attori non riuscirà a sciogliere il nodo della matassa, quello che fanno non servirà nemmeno a risollevare moralmente Howard, né a farlo sorridere, né a far si che si riprenda. Perche l’obiettivo era di “imporre” una virgola che fosse diversa dalle virgole che nella sua vita (quella di Howard) sono divenute lo standard. Se lui esce, non dorme, gira in bicicletta senza obiettivo, allora Whit cercava di integrare una micro-variazione nella sua vita quotidiana, spenta e in balia di sé, nel tentativo di riuscire a farlo anche solo lontanamente parlare. Parola che, però, non esce fuori al primo incontro con i tre attori, che lui reputa delle allucinazioni, e di ciò si convince nel giro di poco tempo. La credibilità con la quale viene messa in moto questa relazione è eccellente, grazie ad una certa consistenza in fase di scrittura che ha ideato i singoli incontri che avvengono tra lui e gli attori, e ha poi scritto una delle più credibili reazioni che una persona possa avere dinanzi un contesto inaspettato che viene ricevuto come del tutto improbabile, non voluto, quasi surrealista. I tre cercano di affrontarlo portando in gioco le sue accuse contro questi tre argomenti (accuse scritte nelle sue lettere), ma lui non dona alcuna risposta, vivendo, interiormente, ogni emozione negativa che prova. I contatti delle persone-attori nel ruolo di amore, tempo e morte si consumano nel tentativo di toccarlo nell’intimo in modo che urli, pianga e si sfoghi.

Avverrà un secondo tentativo, poi un altro ancora e Howard finirà per cedere, bruciando però l’emozione dell’odio, piuttosto che dello sfogo, ma non risolverà nulla. La regia è discretamente cosciente e mette in enfasi dei primi piani sparati, che valorizzano la straordinaria abilità attoriale dei propri attori, tutti pressoché impeccabili nell’interpretazione del proprio ruolo e nel definire ed esprimere un concetto specifico di sofferenza, chi in un modo, chi in un altro. Ognuno ne ha una e ogni attore la interpreta con grande classe. Will Smith rasenta la perfezione. Le sue lacrime, seguite dal silenzio e dalla volontà di distruggere ogni tentativo di abbordo da parte di coloro che vogliono aiutarlo, sono una porzione di realismo sbattuto in faccia contro ogni indicazione commerciale nel rappresentare l’eventuale stato d’animo di un personaggio.

Così, se avrebbe potuto risolversi con il risvolto sentimentalista degno dei meccanismi narrativi delle pubblicità (dove troviamo il classico personaggio che soffre, il classico personaggio che gli offre un sorriso, e il personaggio sofferente che sorride e il messaggio “smile” seguito da “puoi crederci”, compiendo così l’antologico della demagogia), Collateral Beauty si risolve attraverso una percezione piu credibile e sostenuta. Come reagirebbe, realisticamente, una persona che ha perso la figlia, davanti questi tentativi fuori dal mondo, davanti coloro che vogliono farlo sorridere con frasi di supporto e aiuto (che lui smonta e distrugge, anticipando anche ogni frase fatta che avrebbero potuto dire), che cercano di risollevarlo? E’ semplice: una delle possibili reazioni è quella di smontare questa architettura di aiuti messa in atto, nonché di rispondere provando disgusto, rifiuto e indifferenza nei confronti di coloro che si rivolgono a lui. Loro verso di lui, e lui gira le spalle, si chiude, perchè quel qualcosa dentro che si è bloccato non verrà certo sbloccato da un dialogo dove un attore impersona l’amore cercando così di affrontare la corda della sensibilità intima con l’effetto di rinvigorirlo.

collateral-beauty-will-smithHoward è solo e non vuole nessuno. Qui, il messaggio del film, è chiaro: non sarete voi, ne le parole fatte, ne le parole di supporto, ne i tentativi di comunicare con uno che soffre, pur mettendo in gioco qualsiasi idea (anche usufruendo del teatro), a cambiare la vita delle persone. Non è una bella ragazza che spunta e vuole parlarti a cambiarti la vita, né il lavoro, né il mondo, né i tentativi di affetto, ne le capacità di dialogo, ne le emozioni che uno cerca di trasmettere e di donare. La soluzione parte da noi, e solo quando noi stessi decidiamo di aiutarci, decidendo che vogliamo farci aiutare, che allora l’altro ha il permesso di aiutare. Solo quando noi ci apriamo il cuore, che l’altro ha il potere che aveva sempre sognato di avere: quello di aiutarci. Ma dobbiamo esserlo noi a volerlo per primi.

Howard verrà si spinto, assillato, circondato dai piu nel tentativo di fargli aprire quella porta che, al momento della morte della figlia, si è chiusa, portandolo ad essere un contenitore vuoto, quasi cinico, indifferente e incapace di dimostrare interesse per sè stesso. Ma solo quando lui riuscirà ad aprirsi, a sciogliere il nodo, a sputare fuori ciò che non riusciva piu a buttare fuori, riuscirà a sgretolare quel blocco fatto di spirito (composto da malinconia e depressione), tornando nuovamente a sentire il battito cardiaco della vita. E quindi a sorridere. Senza retorica senza eccessi di lieto fine. Il riacquisto della parola e la capacità di farsi la prima passeggiata alla luce del sole sarà il giusto necessario per dirci che, alla fine, la speranza vince e che la vita va avanti.

Il film non si spegne, dunque, sulla nota della malinconia. La regia modera quindi il trattamento delle emozioni umane derivate dalla perdita di una figlia, riuscendo nel tentativo di entrare in simbiosi con il pubblico. Sa anche che se c’è sofferenza, c’è anche speranza e rinascita, perchè così è la vita. Il suo obiettivo, per evitare di essere una commercialata fatta e compiuta, non era di non finire bene (e quindi di finire male), ma di esprimersi con credibilità, serietà ed efficenza nel linguaggio malinconico e nella rappresentazione dei comportamenti umani e delle meccaniche di relazione e di reazione emotiva, che sono ben piu complessi dei modelli e dei meccanismi rappresentati negli spot pubblicitari, dove la musica attiva un emozione istintiva e la persona sembra rinascere. Collateral Beauty tocca una sensibilità che risiede in noi, e soltanto se noi ne siamo portatori, così credo, potremmo davvero apprezzare quest’opera, così come provare empatia per quello che ci viene mostrato. Così, Howard, pur passando gran parte del tempo a perdere tempo, odiare la morte e ignorare l’amore, alla fine riuscirà a compiere quel gesto che nessuno, se non lui, poteva fare: muovere il piede e fare il primo passo. E riacquistare la condizione perduta: la parola. Il sorriso. La capacità di comunicare, di ritornare a respirare, ritornando a vederci chiaro.

cb-1200x799Collateral Beauty tocca le corde della sensibilità umana, raccontando le tematiche dell’accettazione, dell’empatia e dell’interesse umano nei confronti del prossimo, del rispetto della sua sofferenza e del libero arbitrio, della capacità di rinascere dopo il buio, della ristrutturazione di se stessi necessaria per ristrutturare la relazione con gli altri. Il messaggio del film è chiaro e in quanto tale offre una dottrina significativa netta, credibile e ben sostenuta. La distribuzione dei contenuti è omogenea e la loro scrittura è intelligente. Il film porta con sé il sentimento, ed è scritto con le dovute capacità razionali. Vuole farci bruciare un emozione. E ci riesce. C’è chi lo ha criticato, reputandolo una lunga diegesi parlata ricca di parole bucate, fatte e in quanto tali inespressive. Non concordo, e giudico queste dichiarazioni tipiche del finto-critico che, per apprezzare un film, deve trovare il cinema francese prolisso e semiotico anni 20′, quello costruito in modo intellettualoide tanto da risultare “arte”. Per quanto ognuno, poi, può ovviamente dissentire e schifare questo film quanto vuole. Eppure io l’ho trovato un bellissimo film; il racconto del padre e la morte della figlia è risultato essere commuovente.

Will Smith mette a segno una delle piu mature performance di sempre. Se la speranza ha toccato a lui, quando tutto sembrava chiudersi a riccio, anche gli altri avranno il dono della speranza. Accettare la morte è andare avanti (Howard), accettare di dover morire (Simon), sperare di poter aver un figlio (Claire), sperare di ricostruire un rapporto con la figlia (Whit). Accettazione, uno dei grandi noccioli tematici della pellicola. E speranza, come effetto collaterale dell’accettazione. Effetto collaterale che si esprime in modo mediamente parallelo al racconto, e che lascia un messaggio da decifrare, ma ugualmente chiaro nella sua identità. Se muore qualcuno che per noi è caro, la vita non finisce, perchè continua ad esistere. Quindi, se hai perso la piu grande delle bellezze che c’erano in vita tua, rimane ancora la bellezza collaterale, quella che la vita ha ancora da offrirti.

Collateral Beauty è una sorpresa gradita, un opera matura. Un film di sentimento, che affranca una costruzione mainstream, facilmente vendibile a chi si emoziona senza una reale conoscenza dei sentimenti. Un gran film scritto con criterio, che ha acquisito una sua significazione logica e compiuta, capace di donare una visione forte. E’ così che si fa un opera drammatica, che al suo interna cela anche una serie di chicche ironiche, di riflessioni, accompagnate da una rappresentazione credibile di un pezzo di vita vissuto, in cui tutti noi possiamo rivederci. Un film da apprezzare, e senza dubbio uno dei piu sottovalutati dell’anno.


Collateral Beauty 

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  • Regia: David Frankel
  • Sceneggiatura: Allan Loeb
  • Musiche: Allan Loeb
  • Cast: Will Smith, Edward Norton, Kate Winslet, Michael Pena
  • Durata: 97 minuti
  • Anno: 2016
  • Box Office: $87.000.000
  • Like personale: 80%+
  • Edizione consigliata: blu-ray

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