50 domande e risposte sul post-aborto a cura della dott.ssa Cinzia Baccaglini

“50 domande e risposte sul post-aborto” è un opuscolo informativo realizzato in collaborazione con Cinzia Baccaglini per Generazione Voglio Vivere. L’opuscolo nasce e viene divulgato per la prima volta nel 2015. Giunge di recente ad una seconda versione, rivista e ampliata, che qui di seguito ho il permesso di rendere nota.

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L’opuscolo a cura di “Generazione Voglio Vivere”

Ringrazio Cinzia Baccaglini per avermi concesso la pubblicazione del materiale presente all’interno dell’opuscolo; ringrazio Samuele Maniscalco, responsabile di Generazione Voglio Vivere, per aver fatto da tramite, occupandosi personalmente del permesso e dell’invio del materiale.

Per tutte quelle che vogliono abortire, per tutti quelli che cercano su google “aborto pillola”, per tutti quelli che pensano che abortire sia un “diritto”, che faccia il bene della donna e che sia “una cosa da niente”: buona lettura.


Prefazione

Le conseguenze psichiche dell’aborto come malattia mentale sociale. Con queste poche parole potremmo riassumere la catastrofe abbattutasi nel nostro Paese dopo decenni di aborto legalizzato.

Questa verità ormai nota agli specialisti lo è molto meno al grande pubblico. Per questo motivo, Generazione Voglio Vivere ha deciso di porre cinquanta domande alla Dottoressa Cinzia Baccaglini sul post aborto, con un’appendice sul post fecondazione artificiale extracorporea. L’intento è stato quello di pubblicare un testo divulgativo che fosse alla portata di tutti.

Uccidere in grembo il proprio figlio è una tragedia che riguarda non solo la madre ma anche il padre, il figlio già nato, i nonni, gli operatori sanitari – obiettori e non – e quanti, amici o parenti in generale, si ritrovano a dover affrontare la perdita – per alcuni voluta, per altri subita – di un figlio, di un nipote, di un essere umano.

La società moderna, nel tentativo di rimuovere qualsiasi ostacolo all’aborto volontario, ha dovuto ripetere all’infinito un’indispensabile bugia: quell’embrione non è un essere umano, è solo un “grumo di cellule”. Assuefatte da questa menzogna, molte donne si sono illuse di poter sopprimere il frutto del proprio grembo senza subire conseguenze per la propria salute mentale.

Con questa pubblicazione vogliamo mostrare la tragicità del post aborto: ciò che accade veramente dopo aver eliminato quel “grumo di cellule”. Sappiamo che queste pagine non esauriscono il tema trattato, tanto meno hanno la pretesa d’essere un testo scientifico, ma speriamo possano aprire il cuore e la mente a quanti hanno sempre pensato che l’aborto non fosse altro che una semplice operazione chirurgica come togliersi un dente.

Alla condanna dell’aborto deve seguire l’accoglienza e il perdono per quelle donne che, ingannate dai miti dell’abortismo militante, sono cadute in un abisso di dolore e di disperazione. A queste donne vogliamo dire di non perdere la speranza ma di ritrovare la via della vita.

Samuele Maniscalco
Responsabile Generazione Voglio Vivere


I.
L’ABORTO

<<Ecco concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù>> (Luca 1,31)

1. Che cosa è un aborto?

La parola aborto deriva dal latino abortus, vocabolo composto dal participio passato del verbo orior, “nascere” e dalla particella negativa ab-, quindi letteralmente “morire nel nascere”. Comunemente l’aborto è l’interruzione prematura di una gravidanza, meglio è la morte di un bimbo nel grembo di una donna. Questa può avvenire per cause naturali (aborto spontaneo) o essere provocata artificialmente (aborto volontario o la cosiddetta ‘interruzione volontaria della gravidanza’ ) con molte metodiche.

2. Perché le donne abortiscono?

Le motivazioni dell’aborto sono molte, diverse e intersecate: paura di dirlo ai genitori (se minorenni), contrarietà del partner, perdere la “libertà”, rinunciare alla carriera, difficoltà economiche, la fatica se ci sono altri figli, la paura che il bambino non sia ‘normale’. Tali motivazioni hanno una sola radice: la solitudine.

Per cui la società deve essere accogliente, deve garantire alle donne la sicurezza di prendersene cura, di affrontare il problema interno o esterno a sé e trovare le soluzioni che promuovano la vita. Il contesto socio- culturale può determinare l’atteggiamento verso l’aborto in maniera molto rilevante per cui è davvero difficile, come molti sostengono, che sia una ‘libera scelta’.

3. Dopo oltre 36 anni di aborto legale corriamo il rischio di una “normalizzazione” della pratica abortiva. È infrequente incontrare situazioni in cui là dove c’è una mamma che abortisce il proprio figlio/a c’è una nonna che in passato ha fatto lo stesso?

Per la verità è sempre più frequente. Laddove non si respira e sperimenta l’accoglienza della propria vita, nonostante tutte le difficoltà, la preziosità dell’essere unici ed irripetibili, succede che la stessa nonna proponga come ‘soluzione’ l’aborto ammettendo persino di averlo fatto. Molte donne lo scoprono invece successivamente perché mantenuto nel silenzio per decenni.

4. <<Sono in gravidanza non aspetto un bambino>>. Una donna che abortisce continua a sentirsi mamma anche dopo?

Una donna che abortisce sa almeno due cose: che prima aspettava un bimbo e che con l’aborto non c’è più e, la seconda, anche se lo rimuove, lo nega, lo allontana con termini sempre più scientifici persino con un ‘ho una gravidanza in atto’, che quello è suo figlio, anche se non voluto, anche se non desiderato ma è stato, è e sarà sempre suo figlio.

5. Possiamo quindi dire che la maternità inizia dal concepimento e non alla fine dei 9 mesi di gestazione?

Non solo è possibile dirlo ma è scientificamente così dal punto di vista biologico. Psicologicamente parlando potremmo dire anche prima dello stesso concepimento biologico. Concepire l’idea del figlio è già concepire psicologicamente e spiritualmente. È altresì vero che ci sono in alcune ragazze/donne blocchi di evoluzione della propria femminilità rispetto alla maternità, sia in senso culturale che propriamente psichico, solitamente derivanti dalle relazioni genitoriali che hanno vissuto del non sentirsi amate e quindi non riuscire ad amare e ad aprirsi alla vita.

6. L’aborto salvaguarda la salute fisica e psichica della donna, come afferma la Legge 194, o in realtà ne mina le basi?

Sia a seguito delle numerose ripercussioni fisiche a breve termine: aborto ritenuto, endometrite, perforazione uterina e lacerazioni, emorragia, lacerazioni e lesioni del collo dell’utero, rottura dell’utero, coagulazione intravascolare disseminata (DIC), disturbi gastro-intestinali, convulsioni, ipernatriemia (legata ad alcune metodiche), malattia infiammatoria pelvica (Pid), embolia, reazioni all’anestesia, morte; sia per l’aumento delle correlazioni fisiche a lungo termine con tumori al seno e alla cervice e per tutte le conseguenze psichiche, è davvero menzognero dire che l’aborto salvaguarda la salute della donna.

7. Le donne che abortiscono in Italia ricevono la giusta e corretta informazione sui rischi per la propria salute psichica?

Dalla mia attività clinica questo non risulta. Non risulta abbiano né informazioni sulle conseguenze fisiche né su quelle psicologiche. Di norma firmano un consenso informato generico, che attesta che sono state fornite loro le informazioni di cui all’art. 2 e all’ art. 5 della legge 194/78 sull’aborto. Non risulta nemmeno che si spieghi loro in cosa consista concretamente il tipo di aborto cui si sottoporranno, le modalità operative o dove andranno a finire i propri figli a seconda dell’epoca gestazionale.

Sono molte le donne che successivamente mi chiedono “Perché non mi hanno detto che sarei stata così male?”. “Perché non mi hanno informata prima su cosa mi avrebbero fatto e come me lo avrebbero fatto?”. A fronte di un’esaltazione in altri contesti medici del consenso informato in questi casi abbiamo un totale silenzio.

Queste eventuali informazioni, laddove raramente fornite nei colloqui previ, hanno poi il problema di essere capite in un contesto emotivo confuso, ansioso e altamente scosso. Bisogna inoltre considerare l’ulteriore difficoltà culturale e di linguaggio in particolare per le donne straniere.

II .
RIPERCUSSIONI DELL’ABORTO SULLA DONNA

<<Guardatevi dal disprezzare uno solo di questi piccoli, perché vi dico che i loro angeli nel cielo vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli>> (Matteo 18,10)

8. Quali sono le conseguenze psichiche dell’aborto sulla donna?

Ci possono essere 3 quadri clinici:

  1. Psicosi post-aborto: quadro di scollamento dalla realtà di natura psichiatrica che si sviluppa immediatamente dopo l’aborto e può durare oltre i 6 mesi.
  2.  Disturbo da stress post-aborto (PTSD): si sviluppa a partire dai 3 ai 6 mesi dopo l’aborto e presenta i sintomi tipici dei reduci del Vietnam: risvegli notturni, incubi, tachicardia, aumento dell’ansia, allucinazioni olfattive, uditive, visive, pensieri e immagini intrusive (flashback), irritabilità o scoppi di collera, difficoltà a concentrarsi, ipervigilanza, esagerate risposte di allarme, somatizzazioni.
  3.  Sindrome post aborto (PAS): può insorgere sia subito dopo l’evento aborto ma anche a distanza di anni, persino decenni, con incapacità di provare emozioni, distacco dagli affetti, disturbi della comunicazione, disturbi del pensiero, disturbi dell’alimentazione, disturbi della sfera sessuale, disturbi neurovegetativi, disturbi fobici, disturbi d’ansia, depressione, pensieri suicidari, tentativi di suicidio, disturbi del sonno, inizio o aumento di sostanze stupefacenti, alcol o psicofarmaci.

9. Queste tre conseguenze psichiche si presentano allo stesso modo, indipendentemente dalla metodologia abortiva impiegata o dall’epoca gestionale nella quale si ha abortito?

Queste conseguenze si presentano differenziate per metodologia abortiva poiché è differente vivere in diretta un aborto da RU486 con perdita del bimbo ovunque e invece risvegliarsi dopo un’anestesia totale o ancora vivere in diretta miniparto (aborto del secondo trimestre) sapendo che quel bimbo che partorirai sarà morto perché così è stato deciso. Per l’intensità della sofferenza invece non dipende dall’epoca gestazionale (per un figlio morto non si soffre in proporzione al numero di centimetri, grammi o kg o età) ma dalla struttura di personalità della mamma coinvolta.

10. Esiste un ragionevole numero di studi scientifici che confermino la presenza di questi disturbi?

Esistono molti studi condotti in diverse nazioni che attestano le conseguenze psichiche e tutti concordano nell’individuare i sintomi descritti sopra. In particolare per le minorenni raddoppia l’ansia, la depressione e l’ideazione suicidaria.

11. Quando è stato utilizzato per la prima volta il termine Sindrome Post Aborto?

Le conseguenze psichiche post aborto volontario sono studiate in America fin dagli anni 60 dello scorso secolo. La definizione di Post abortion stress syndrome si deve a Vincent Rue nel 1981 durante un congresso su “Aborto e relazioni familiari” tenutosi negli USA davanti alla Commissione di Giustizia del Senato. Deve essere ricordato che non è termine accettato né dall’American Psychologic Association né dall’American Psychiatric Association. Non compare come categoria nei manuali diagnostici. Essa rientra comunque all’interno del Disturbo post traumatico da stress.

12. Quali sono i sintomi più ricorrenti di una Sindrome Post Aborto?

La descrizione della PAS di Vincent Rue è la seguente:

  • L’esposizione o la diretta partecipazione, al di là delle usuali esperienze umane, a una morte intenzionalmente provocata e percepita come traumatica.
  • La rivisitazione incontrollata e negativa dell’evento di morte rappresentato dall’aborto, per esempio attraverso ricordi improvvisi, incubi, dolore intenso e reazioni nel giorno dell’anniversario.
  • Il sussistere di tentativi vani, intesi a evitare o addirittura negare i propri ricordi e il dolore emotivo provato, con una ridotta capacità di reazione nei confronti degli altri e del proprio ambiente.
  • L’esperienza di sintomi da accresciuta vigilanza non presenti prima dell’aborto, incluso il senso di colpa provato in rapporto alla propria sopravvivenza.

13. Questi sintomi si manifestano subito o anche a distanza di anni?

La manifestazione di questi sintomi dipende dal tipo di aborto ma soprattutto di struttura di personalità della persona coinvolta, cioè dalla sua storia personale, familiare, relazionale, altri avvenimenti di vita precedenti o successivi e ‘carattere’, nel senso di costruzione della sua identità.

Ci sono donne che avvertono subito questo profondo dolore e mancanza, magari perché costrette dal partner o dalla situazione, ma la giustificazione ‘non potevo fare diversamente’ non è sufficiente a colmare il vuoto di un figlio ucciso, una bara nascosta nei meandri del cuore e dell’anima.

Altre donne, solo a seguito del tempo che passa e di altri avvenimenti della vita, sia positivi che negativi (morte di altri figli, morte dei genitori, morte del padre del bimbo, nascita di un nipotino, entrata in menopausa), avvertono questa frattura della coscienza e prendono consapevolezza di ciò che realmente sentono per quel fatto accaduto, magari anche decenni

prima, e rimasto a lungo latente. Altre ancora si mettono faccia a faccia con l’aborto del proprio bimbo persino in punto di morte.

14. La tossicodipendenza può essere annoverata tra i sintomi di una Sindrome Post Aborto?

Ci sono due relazioni che legano aborto e tossicodipendenza. La prima è che per ottenere la droga, ancora oggi, molte tossicodipendenti danno in cambio prestazioni sessuali che se esitano in gravidanze hanno come sbocco unico l’aborto. La seconda è che a seguito di assunzione di sostanze stupefacenti ci sono disinibizioni sessuali che portano allo stesso risultato. Quella più importante è che a seguito di aborto aumenta il consumo di alcol e sostanze obnubilanti: in particolare eroina, cannabinoidi e aggiungerei anche psicofarmaci.

15. Che percentuale esiste tra ricovero psichiatrico e aborto volontario?

È molto difficile stabilire la percentuale esatta tra ricovero psichiatrico e aborto volontario, in quanto se il ricovero avviene per psicosi dopo l’aborto può essere dovuto all’aborto stesso o a slatentizzazioni di sintomi psicotici pregressi e magari fino ad allora compensati in altra maniera. All’arrivo in reparto non è sicuramente una domanda di prassi chiedere se c’è stato un aborto né alla persona né ai parenti, che potrebbero persino essere all’oscuro dell’avvenuto aborto, siano essi genitori che marito, poiché potrebbe essere stato abortito un figlio concepito dalla donna di nascosto o di un altro uomo.

Alcuni studi però indicano che nei primi 90 giorni dopo l’aborto le donne che hanno abortito hanno una probabilità 4 volte maggiore di essere ricoverate rispetto alle donne che non lo hanno fatto (Ostbye, 2001) e in uno studio di Reardon (2003) la percentuale rimaneva molto più alta, a seconda del tempo passato – lo studio teneva in considerazione la durata di un follow up di 4 anni, persino nelle donne che avevano partorito pure a seguito di gravidanza indesiderata. Anche l’ultima metanalisi della Colemann evidenzia che l’81% di quelle che avevano abortito avevano aumentato i loro problemi di salute mentale, il 10% di queste esclusivamente attribuibile all’aborto.

16. Quali sono ad oggi le percentuali di suicidi registrati a seguito di Sindrome Post Aborto?

Anche su questo argomento bisogna prestare attenzione poiché sono molti i fattori che bisogna tenere in considerazione. I molti studi, infatti, tengono in considerazione sia l’aumento della ideazione suicidaria (per esempio raddoppiano le percentuali per le minorenni 15-18 anni), sia delle probabilità di tentare il suicidio (per le stesse minorenni il 10% in più con un aborto nei precedenti 6 mesi rispetto ad una coetanea che non l’ha fatto) che dei veri e propri suicidi effettuati o dei suicidi non portati a termine perché suicidi falliti in quanto salvate.

Lo studio più rilevante dal punto di vista di osservazione nel tempo (1987-2000) è uno studio finlandese che ha preso in considerazione la mortalità per suicidio nella popolazione femminile dai 15 ai 49 anni e che segnala una altissima percentuale a seguito di aborto volontario (83,1 su 100.000 a fronte di un 28,2 per chi aveva partorito).

17. Abortire al secondo trimestre comporta ulteriori conseguenze psichiche?

La differenza tra l’aborto chimico vissuto in diretta, quello chirurgico obnubilato dall’anestesia e un miniparto, come è quello del secondo trimestre, ha caratteristiche diverse. In particolare il vissuto in diretta di un parto, che darà alla luce un bimbo morto perché così si è voluto, porta con sé una serie di memorie corporee che condizionano anche i parti successivi. Aldilà della medicalizzazione sempre più spinta della gravidanza e del parto, forse bisognerebbe indagare di più anche su questo aspetto.

18. Quali sono le scene maggiormente rivissute dalle donne che hanno abortito al secondo trimestre?

La sala travaglio/parto magari già vissuta per altri figli nati, i colori, gli odori, le voci del personale sanitario, la percezione dell’uscita del bimbo dal canale vaginale e a volte anche la vista di movimenti o suoni emessi dal bimbo stesso. La sensazione descritta riguarda anche il tempo che, come bloccato, non passa mai in quanto scandito solo dalle contrazioni e dal dolore connesso.

19. A seguito di questi disturbi possono esservi delle complicazioni per i successivi travagli?

Nella mia esperienza clinica la più ricorrente è il blocco del travaglio dopo il suo inizio per un rivissuto di memorie corporee e cognitive per cui i sanitari sono costretti o ad indurre con ossitocina il parto o addirittura ad intervenire con taglio cesareo.

20. Che tipo di relazione mamma-figlio potrebbe instaurarsi con i figli nati in seguito?

Ancora una volta dipende dalla persona, dalla storia e dal tempo intercorso dall’aborto e il successivo concepimento e se vi è stato o meno un percorso psicoterapeutico-psichiatrico-spirituale.

Ci sono sostanzialmente tre atteggiamenti nelle donne che hanno abortito e che io verifico quotidianamente nella clinica:

  • Chiusura totale alla possibilità di concepire ancora, con assunzione di contraccezione e massiccio utilizzo di pillola del giorno dopo. Se nonostante ciò si concepisce, e non vi è stato un percorso nel frattempo che abbia riaperto il cuore e la mente della madre, o si decide nuovamente per l’aborto o si vive il figlio come un ricordo del precedente e in alcuni casi si può arrivare ad un mal accudimento (aumento dell’aggressività, rabbia verso il figlio, violenze sia psichiche che fisiche).
  • Ricerca forsennata di un altro figlio entro un anno per colmare il vuoto di quello abortito, un sostituto, e quindi a quel punto una iperprotezione malsana.
  • Se invece il concepimento avviene dopo aver elaborato la morte del figlio abortito precedentemente con la comprensione che è un altro figlio/figlia, con la responsabilità e comprensione delle ferite che questo comporterà nella crescita, in particolare in alcuni momenti di distacco psichico sano del figlio dalla madre, se ciò non verrà vissuto come ulteriore ferita alla maternità allora possono esserci buone probabilità di una relazione sana.

21. Abortire un bambino affetto da una grave malformazione o affetto da una sindrome incurabile, comporta meno rischi psichici rispetto al farlo nascere, accoglierlo e amarlo anche se solo per pochi istanti?

Di per sé il parto è sempre fattore psichico protettivo per la donna e avere a che fare con un figlio vivo seppur malato è sempre molto diverso da quello con uno morto, ucciso per decisione propria. Ma anche qui non si deve generalizzare.

Innanzitutto bisogna stare molto attenti alla diagnostica prenatale, chi la fa e come la fa. Accettare un figlio cosiddetto terminale ossia partorire un figlio che si sa dovrà morire, magari entro poche ore dalla nascita, è dolorosissimo ma purtroppo, anche se vissuta come ingiustizia della vita, la morte naturale fa parte della nostra esistenza e non decidiamo noi né il come né il quando. Se si è sostenuti da persone che poi non solo professionalmente ma anche per esperienza propria ci sono già passate, il dolore si affronta meglio.

Altra cosa è l’accettazione di un bimbo che può avere handicap fisici o mentali in una cultura che ha la sindrome del figlio perfetto a tutti i costi. Qui bisogna guardare alla nostra capacità di accoglienza in quanto sempre e comunque figlio e poiché malato ancora più bisognoso di cure e di affetto, alla nostra idea di perfezione, alla nostra idea di diversabilità – che tanto va di moda – ma poi non alberga nelle nostre menti, cuori e atteggiamenti quotidiani. In queste situazioni la solitudine relazionale spaventa molto. Non esistono figli incurabili perché l’unica cura per i figli è l’Amore. Forse le loro malattie saranno inguaribili, ma non è ammazzando il malato che curo la malattia.

22. Chi subisce un aborto spontaneo corre i medesimi rischi di natura psichica rispetto a chi vi ricorre volontariamente?

Perdere un figlio con un aborto spontaneo è doloroso, ma a seguito di una sofferenza intensa nei primi mesi essa si risolve solitamente con un’elaborazione naturale del lutto. A volte rimangono domande come: ‘Avrò fatto tutto il possibile?’. ‘Avrò fatto qualcosa di sbagliato?’. ‘Perché non è con noi?’. Rimane comunque il ricordo di quel figlio. Possono

esserci ovviamente dei blocchi psichici dovuti alla storia personale ma nulla a che vedere con le impennate dei sintomi psichici a seguito di aborto volontario, in particolare all’epoca presunta del parto che ci dovrebbe essere stato o alle reazioni da anniversario dell’aborto.

23. Come affrontare la perdita non voluta di un figlio?

Prima di tutto dargli/le un nome (le mamme hanno una straordinaria capacità di riconoscere se fosse maschio o femmina). Sentirlo esattamente come uno/a di famiglia che se ne è andato troppo prematuramente e improvvisamente. Se possibile seppellirlo: nel nostro Paese è previsto il seppellimento dei feti superiori alle 20 settimane, le cui fattezze umane così evidenti e visibili impediscono anche ai più cinici di gettarli nell’inceneritore. Un DPR del 21 ottobre 1975, n. 803, stabilisce, all’articolo 7, «su richiesta dei genitori il seppellimento anche dei prodotti di concepimento abortivi di presunta età inferiore alle 20 settimane».

Proprio sulla base di questo DPR, l’allora ministro alla Sanità Donat Cattin emanò la circolare telegrafica n.500/2/4 del 13 marzo 1988, tuttora in vigore, in cui si stabilisce la sepoltura di feti anche in assenza di richiesta dei genitori, e si ricorda che «lo smaltimento attraverso rete fognante o i rifiuti urbani ordinari costituisce violazione del Regolamento di polizia mortuaria e del Regolamento di igiene», mentre lo «smaltimento attraverso la linea dei rifiuti speciali, seppur legittimo, urta contro i principi dell’etica comune».

Il DPR n. 285 del 1990 prevede ugualmente che i bambini, definiti «prodotti abortivi», di età gestazionale dalle 20 alle 28 settimane vengano sepolti a cura della struttura ospedaliera.

A richiesta dei genitori possono essere raccolti nel cimitero, con la stessa procedura, i resti di «prodotti del concepimento» di età inferiore alle 20 settimane. Per chi crede pregare per lui/lei, offrire Sante Messe in suffragio: per il seppellimento esiste uno specifico rito per le esequie dei bimbi morti senza Battesimo (CCC 1261. Per l’Italia cfr il nuovo Rito delle esequie 2012). Per cui in una parola ‘farne memoria’.

Molti continuano a festeggiare quel giorno come una tripla data: di nascita su questo mondo, di morte e di nascita al Cielo. La cosa che non si deve assolutamente fare è bloccare questo dolore di perdita o minimizzarlo, attraversare tutte le tappe della rielaborazione del lutto per un figlio in Cielo, così come per tutte le altre persone a noi care e se si necessita rivolgersi a psicoterapeuti.

24. <<Ho un problema, sono incinta, elimino il problema>>. Questo pensiero apparentemente lineare è molto frequente, sopratutto tra le più giovani. Quali sono le reazioni immediate all’uccisione del proprio bambino?

A seguito di questo ragionamento lineare paradossalmente la reazione immediata, se non va incontro a psicosi, è quella di abbassamento dei livelli di ansia, appunto si è tolta il problema. Solo che i problemi si presentano dopo.

25. L’aborto farmacologico riduce la possibilità di conseguenze psichiche sulla donna rispetto a un aborto chirurgico con anestesia?

Con l’aborto farmacologico la donna vive in diretta tutto il procedimento. Nell’aborto chirurgico vi è un obnubilamento della coscienza dovuto all’anestesia con successivo risveglio e impatto con la realtà di ciò che è successo. In uno studio scozzese del 2005 la diversità posta era che le donne che stavano per praticare l’aborto chirurgico avevano più ansia prima della procedura; quelle con aborto chimico dopo e con una minore autostima.

Nella mia esperienza clinica il fatto di vivere il tutto in solitudine, a casa, con nausea, vomito, diarrea, perdite d sangue, sedute in bagno, vedere e riconoscere l’embrione espulso, non mi fa affermare che riduce la possibilità di conseguenze. Ho notato, invece, un aumento della ideazione suicidaria e tentativi di suicidio perché a differenza dell’operazione chirurgica che è stata compiuta direttamente da altri su cui riversare rabbia, quelle pastiglie le hanno messe in bocca loro.

III.
RIPERCUSSIONI DELL’ABORTO SULLA FAMIGLIA E GLI OPERATORI SANITARI

<<Ecco, dono del Signore sono i figli, è sua grazia il frutto del grembo. Come frecce in mano a un eroe sono i figli della giovinezza. Beato l’uomo che ne ha piena la faretra>> (Sl 127, 3-4)

26. Le conseguenze psichiche di un aborto possono colpire anche i padri?

Sono in aumento i padri che chiedono aiuto in duplice senso o perché estromessi dalla decisione riguardante l’aborto, per cui loro il figlio lo volevano, oppure successivamente quando per eventi di vita altri (non riescono ad avere altri figli magari anche con altre partner) rivivono il loro senso di colpa.

27. Come reagiscono gli uomini alla notizia che il proprio figlio è stato abortito?

La reazione è quella di rabbia da impotenza che possono manifestare in molti modi: odio verso il femminile, aumento di aggressività verbale e fisica come ‘sfogo’, isolamento e astensione da altre relazioni significative. Molto dipende anche dallo status del padre del bimbo nei confronti della madre.

28. Quali ripercussioni può avere un aborto volontario all’interno della relazione moglie-marito?

Innanzitutto bisogna capire il tipo di relazione dei due e le modalità del concepimento e se ci sono stati terzi che sono intervenuti pesantemente nella decisione, come per esempio, i genitori di una minorenne. Preferisco, quindi, parlare di madre e padre del bimbo abortito. Le ripercussioni sono in particolare a carico della comunicazione, della relazione emotiva e quella, più intima, sessuale.

Se ne possono descrivere 3:

  1. se l’aborto è stato deciso da entrambi si può avere per anni una compensazione in funzione di altri figli presenti, sposarsi come atto riparativo, cercare un altro figlio sostitutivo oppure accusarsi reciprocamente del mancato dialogo e supporto, fino a veri e propri conflitti che possono portare alla separazione se non sarà elaborata insieme la perdita del figlio abortito;
  2. se la madre è stata costretta dal padre del bimbo, solitamente si chiude in un isolamento rabbioso e vendicativo più o meno velato nei suoi confronti e prima o poi la separazione è assicurata soprattutto se non ancora sposati;
  3. se è stata la madre a volere a tutti i costi l’aborto o costretta da terzi, che non sia stato il padre del bimbo, sarà lui a risentirne di più con una vera e propria sintomatologia a suo carico.

29. I figli già in vita e quelli successivi all’aborto possono essere essi stessi vittime della sindrome post- aborto?

Sì. Le caratteristiche sono quelle del Disturbo Post Traumatico da stress dei bambini. Questo può essere espresso con comportamento disorganizzato o agitato, si possono manifestare giochi ripetitivi in cui vengono espressi temi o aspetti riguardanti il trauma, essere presenti sogni spaventosi senza contenuto riconoscibile, possono manifestarsi rappresentazioni ripetitive specifiche del trauma.

Un esempio sono le rappresentazioni grafiche della famiglia poi annerite con rabbia e cestinate ma che qualcuno va a raccogliere mandando in ansia il bambino. Un grande senso di insicurezza; una perdita di fiducia, accompagnata, talvolta, da senso di paura, d’avversione e persino di odio verso i genitori giudicati capaci di uccidere anche loro, dal momento che hanno osato uccidere un fratello o una sorella. I bimbi sanno che è successo qualcosa, che qualcuno è morto perché sono vivi loro.

30. Come reagiscono alla notizia che il loro fratellino/ sorellina è stato abortito/a?

I figli già in vita vivono con i genitori tutto il clima emotivo che li circonda, sia che non sappiano cosa stia succedendo – ma lo avvertono in maniera non verbale (l’ansia, il nervosismo, i pianti della madre, i conflitti) – sia che, come purtroppo accade, vengano messi al corrente o, ancor più, venga richiesto il loro parere.

Alcuni lo scoprono solo anni dopo ed è veramente difficile capire, interpretare e guardare a quei genitori nello stesso modo. Solitamente si va verso il versante depressivo. La domanda che si pongono è quella riguardante che cosa sarebbe accaduto se loro fossero capitati nel momento del fratello/sorella abortito/a. Si vivono come dei sopravvissuti. Sempre più mamme che hanno abortito scoprono che hanno a loro volta madri che hanno abortito.

Per quelli successivi, come ho già scritto, dipende da quando sono concepiti. Il sapere di essere stati concepiti in sostituzione di un fratello o sorella abortiti produce quella ferita dei non amati perché unici ed irripetibili che può portare verso l’area depressiva o al contrario quella narcisistica. Si sono evidenziati, per i bimbi nati dopo un aborto, aumenti di aggressività, abusi sessuali, abbandoni. Queste fantasie di abbandono ci sono anche nei bimbi nati prima dell’aborto. Altro tipo di fantasia è quella di avere altri genitori. Spesso le domande che fanno sono molto semplici, dirette ma tragiche, del tipo: ‘Perché io sì e lui no? Potevo esserci io al suo posto?’.

A volte gli elementi arcaici della relazione primaria con la madre influenzano i sopravvissuti fino al punto estremo ‘Ho ucciso mio fratello e ora tutti vorranno uccidere me’ oppure ‘non ho mai chiesto di venire al mondo, siete stati voi a mettermici quindi non è stata una mia libera scelta, l’unica cosa che mi resta da fare, per riconquistare la mia autonomia, è farmi fuori, suicidarmi, perdermi’ .

Un’altra riflessione da fare è a questo punto sull’aumento dei suicidi infantili e adolescenziali, sugli abusi sessuali, sull’aumento di giovani che si drogano, che si sballano e che non a caso si dice hanno perso il ‘senso della vita’.

31. E i nonni, come reagiscono all’uccisione del proprio nipotino/a da parte dei propri figli?

Anche qui occorre un distinguo. Ci sono nonni che avallano ed accompagnano ad abortire e poi si rendono conto di ciò che realmente succede alla loro figlia soprattutto se minorenne. Ci sono nonni paterni che si astengono dal prendere posizione e questo viene visto o come uno scacco matto al figlio o come un lavarsene le mani complice. Poi ci sono i nonni che non sanno nulla e scoprono solo dopo ciò che è successo alla loro figlia/figlio, anche se minorenne, poiché la legge lo permette e quindi nipotino, e non si capacitano poiché avrebbero potuto aiutare se solo la paura del dire non avesse bloccato i figli.

32. Come vivono i medici obiettori di coscienza l’impossibilità di non poter salvare i bimbi destinati all’aborto?

Con un senso di grande impotenza. Sapere di aver studiato ed appreso la professione medica per curare, non sempre guarire, la vita e ritrovarsi che i colleghi la uccidono deliberatamente segna in profondità il cuore e la coscienza degli obiettori.

33. E i medici che gli aborti li praticano? Anche loro rischiano dei traumi?

Di per sé una professione che metta le proprie capacità e professionalità umane al servizio degli altri è molto esposta alla sindrome del burn-out che ha come elementi principali:

  • l’esaurimento emotivo: la sensazione di essere in continua tensione, emotivamente inariditi dal rapporto con gli altri;
  • la depersonalizzazione: dare risposte negative nei confronti delle persone che ricevono la prestazione professionale, deterioramento della relazione con la persona;
  • ridotta produttività nel lavoro: cioè la sensazione che nel lavoro a contatto con gli altri la propria competenza ed il proprio desiderio di successo stiano esaurendosi.

Esistono i presupposti perché questa sindrome si presenti più frequentemente e/o in modo più grave tra il personale sanitario, in particolare medico, che pratica l’aborto volontario per diverse motivazioni: le sfere emotive che interpella, un tipo di intervento senza cura, senza miglioramento. Chiunque esercita la professione in funzione dello stipendio o dietro l’egida di un fantomatico ‘servizio alla donna sancito per legge’, difficilmente risentirà delle implicazioni legate a tali problematiche. Se invece si agisce secondo scienza e coscienza, vedendo la mamma nella sua soggettività, la contraddizione di chi ha scelto una professione che aiuta a dare la vita e si trova coinvolta nella sua negazione, può emergere in tutta la sua drammaticità.

Ne può derivare un comportamento totalizzante (che ricerca l’efficientismo, disumanizzando se stessi) o estraniante (in cui attraverso l’esecuzione materiale della prestazione senza alcun coinvolgimento si disumanizzano gli altri). Sono le due strade che, in ogni settore dell’assistenza, portano alla sindrome del burn-out caratterizzata da abulia, ripetitività, demotivazione, insofferenza verso il prossimo, scarsa o nessuna gratificazione professionale. Basta poi leggere le biografie di medici abortisti pentiti per rendersi conto di ciò che accade quando si produce quella frattura della coscienza che porta alla consapevolezza di ciò che si stava facendo ossia mettersi al servizio dell’uccisione dei figli degli altri.

34. Gli infermieri che non collaborano attivamente alla procedura abortiva ma alle fasi preparatorie, corrono dei rischi psichici?

Un altro aspetto si riferisce al vissuto emotivo di impotenza di chi, obiettore di coscienza, è in questi reparti e non può far nulla per impedire questa strage e la conseguente ghettizzazione degli obiettori. Non solo gli infermieri. Anche altri sono tenuti a fare azioni non dirette per legge, ma il problema è la consapevolezza che quelle fasi preparatorie porteranno all’aborto: per esempio, un portantino che sa che deve accompagnare una donna in sala operatoria in ginecologia nel giorno degli aborti.

Se poi tutto ciò avviene con una donna appena tornata dalla maternità, felice della nascita della sua bambina, e impatta con la realtà di chi questo figlio non lo vuole, le descrizioni del vissuto e della coscienza sono veramente drammatiche. Bisognerebbe ritornare e studiare bene la valutazione dell’azione morale nelle sue componenti e le varie cooperazioni formali al male dirette ed indirette.

35. Le terapie esistenti sono in grado di cancellare del tutto il dolore e il senso di colpa?

Non si cancella un dolore così. Si può però arrivare a far sì che questa sia una ferita accompagnatoria. Un’assenza presente nel cuore, nella mente e nell’anima e non una presenza-assente persecutoria. A tratti anche il senso di colpa riemergerà e a quel punto bisognerà trasformarlo ogni volta in senso di responsabilità e di vita per se stessi e i propri cari.

36. A chi rivolgersi per curare queste patologie?

Ci deve essere un approccio integrato e diversificato a seconda delle persone che si hanno di fronte. Ricordiamoci che non sono solo le mamme ma anche i padri, i figli in vita e quelli successivi all’aborto, i nonni, il personale sanitario sia che abbia una frattura di coscienza se abortista o che viva da obiettore l’impotenza di fronte a ciò che gli succede intorno. Quindi accompagnamento psicoterapeutico, se necessita anche psichiatrico con psicofarmaci e spirituale.

È necessario una collaborazione stretta tra le persone che seguono chi ha abortito e fatto fecondazioni extracorporee affinchè il percorso non sia frammentato, mettendo la persona a rischio di aggravamenti psicopatologici. È un percorso che può durare anche anni, pertanto bisogna diffidare dalle proposte a breve termine, a spot occasionali o a protocolli uguali per tutti.

Non dimentichiamo che l’ideazione suicidaria è molto alta soprattutto nelle reazioni ‘da anniversario’ e che la responsabilità di chi prende in carico queste persone altrettanto. Bisogna diffidare da chi non ha i titoli professionali di competenza. L’elaborazione del lutto spetta agli psicoterapeuti e agli psichiatri- psicoterapeuti. A volte, anche nel mondo cattolico il tema del post aborto viene visto come nicchia ecologica lavorativa e così non può essere. Per chi crede, dobbiamo ricordare che per l’aborto (chi lo fa, pratica, consiglia e facilita ) è prevista la scomunica ipso facto e latae sentenziae (CCC 2272), pertanto anche il cammino spirituale deve essere fatto con sacerdoti preparati e formati a questo delicato argomento (Evangelium Vitae n.99).

Molte derive di angelologia e di new age, con riti molto fantasiosi e per nulla aderenti né alla dottrina né alla realtà del post aborto, stanno purtroppo imperversando con risultato di aggravamenti psicopatologici per le persone interessate.

37. Esiste un numero verde da contattare per aprirsi a degli esperti e raccontare le proprie angosce a seguito di aborto volontario?

A nessuno sono mai cadute le orecchie per il troppo ascoltare. Sono molte le realtà che in questi anni hanno aumentato la loro attenzione alle sofferenze post aborto sia nel mondo del volontariato, sia nel mondo professionale, sia nel mondo ecclesiale di accompagnamento spirituale.

Un numero verde da contattare dove trovare direttamente esperti non esiste. Esiste SOS VITA 800813000 dove si trovano volontari che poi eventualmente inviano ad esperti; esistono inoltre modalità informatiche, per esempio http://www.ildonoonlus.org.

IV.
IL POST FECONDAZIONE ARTIFICIALE EXTRACORPOREA

<<La diffusione delle tecnologie d’intervento sui processi della procreazione umana solleva gravissimi problemi morali in relazione al rispetto dovuto all’essere umano fin dal suo concepimento e alla dignità della persona, della sua sessualità e della trasmissione della vita >> (Istruzione Donum Vitae sul rispetto della vita nascente e la dignità della procreazione, Congregazione per la Dottrina della Fede)

38. Cosa sono le tecniche di fecondazione artificiale extracorporea?

Sono metodiche mutuate dal mondo veterinario che consistono nel prelievo di gameti maschili e femminili fatti incontrare (FIVET) o inseriti con iniezioni (ICSI) fuori dal corpo della donna per poi essere reinseriti una volta eventualmente si fosse prodotto uno o più embrioni e fossero arrivati, dopo un paio di giorni, ad essere di qualità sufficiente. Esse si distinguono in omologhe (dentro la coppia, senza specificare cosa essa significhi) ed eterologhe, ma la procedura e gli insuccessi in termini di embrioni sacrificati, ossia prodotti ma che non hanno visto la luce, è certa. Per il Magistero cattolico ogni tipo di fecondazione extracorporea è vietata per la morte di tutti questi embrioni e la disgiunzione dell’atto unitivo da quello procreativo.

39. Queste tecniche curano la sterilità?

No, se la coppia è sterile rimane sterile, per cui non si può parlare della fecondazione extracorporea come terapia. Le tecniche tentano, con poco successo, di bypassare l’ostacolo ma non curano.

40. Quali sono i disturbi psichici più frequenti per le donne che si sottopongono a queste tecniche?

Vi sono tre momenti in cui ci sono conseguenze psichiche rispetto alla fecondazione extracorporea: durante la preparazione al trattamento, durante il ciclo di fecondazione vero e proprio e il terzo momento è il dopo, sia che esso abbia, raramente, successo – quindi il bimbo in braccio – o, più probabilmente, che non lo abbia. I disturbi psichici più rilevanti rimangono ansia, depressione, disturbo ossessivo – compulsivo inteso come coazione a ripetere, diminuzione dell’autostima all’aumentare degli insuccessi e disturbo post traumatico da stress. Come sempre, le reazioni individuali possono orientarsi sul versante somatico dato l’interessamento corporeo importante (neurovegetativo, disturbi alimentari) o sul versante propriamente psicotico con un distacco forte dal principio di realtà per poter affrontare le procedure o successivamente con voci psicotiche di bimbi a seguito delle tecniche senza riuscita.

41. Tra il primo e il secondo ciclo, quali sono le percentuali di donne colpite da disturbi?

Tra il primo e il secondo ciclo il 40,2% delle donne va incontro a disturbi psichiatrici; il 23,2% a disturbi d’ansia, depressione maggiore, disturbo distimico (Chen, 2004, Taipei). Ancora, aggressività repressa mitigata da meccanismi di difesa, quali lo spostamento e la rimozione (non è successo niente!) e questo è tipico anche della sindrome post aborto: ‘non ci voglio pensare’, sposto l’argomento finché le situazioni della vita non mi chiedono il conto. Un’immagine ambivalente tra il sé ideale e un sé reale (non riesco ad avere figli) accompagnata quindi da una povera immagine corporea.

Dagli studi emerge che, nelle coppie che chiedono la fivet, il 28% di queste ha già disturbi sessuali e il 25% li sviluppa durante i trattamenti (Kakisman, 1990); la povertà comunicativa rimane, sia che nasca il figlio da fivet, sia che non nasca (Slade, 1997). Questo significa che i blocchi psicologici di coppia possono esserci anche prima del ciclo di trattamento, prima della certificazione di sterilità; una delle cause stesse della sterilità può essere dovuta a disturbi psicogeni.

La depressione di coppia e l’insoddisfazione sessuale è derivata anche dal fatto che per molto tempo tutto diventa meccanizzato e questo comporta insoddisfazione nel tema della risoluzione dei conflitti, perché si sposta l’argomento (Sydsjo, 2002 Sweden). Un uomo e una donna che si vogliono veramente bene parlano e risolvono i conflitti, anche quelli più duri, se si vuole crescere come coppia, elabora insieme anche questo lutto della propria non fertilità biologica non a discapito della propria fecondità; questa prassi esclusivamente tecnico-meccanica può diventare un conflitto ulteriore e può diventare un argomento di non dialogo all’interno della coppia (Owens 1993, Klock 1994, Gibson 2001, Bryan 2003).

42. Le tecniche di fecondazione artificiale possono condurre a sindromi post abortive?

Sì. In particolare quando, a seguito di gravidanze così altamente monitorizzate e alle malformazioni intrinsecamente prodotte dalle tecniche stesse, si richiede l’aborto del secondo trimestre. Esistono tuttavia una serie si parallelismi sui disturbi psichici post aborto e post fivet.

Per le madri i cui embrioni non attecchiscono simili al vissuto da aborto da R486; per gli embrioni che non vanno trasferiti con bimbi fantasmi simili a quelli della pillola del giorno dopo; quelli che attecchiscono ma vengono abortiti, anche se con modalità spontanea, come senso di colpa per non averli trattenuti come nell’aborto volontario. Poi, alla consapevolezza dell’eventuale bimbo in braccio la domanda su tutti gli altri.

43. Che cos’è la riduzione embrionaria?

È l’uccisione di uno o più feti in gravidanze plurigemellari solitamente chiesta dopo aver verificato che ci sono malformazioni. Per dirla in breve, è un’eliminazione selettiva che avviene iniettando sostanze nel cuore (per es. cloruro di potassio) o nel sacco amniotico dei feti che ne producono la morte.

44. In caso di gravidanza gemellare o plurigemellare non voluta, quali conseguenze psichiche può avere sulla madre questa tecnica?

Solitamente vi è un’accettazione dei bimbi così tenacemente cercati e a parte lo smarrimento iniziale di più bimbi si pensa alle situazioni logistico pratiche. Capita però che non siano ben graditi più di quello/a cercato e non è raro che si vada o si sia consigliati, per il pericolo per la madre, verso la cosiddetta riduzione embrionaria se non in Italia all’Estero.

45. E se il bambino “selezionato” nasce comunque con qualche malformazione o a distanza di anni evidenzia un ritardo nello sviluppo mentale?

Nessuno può sapere cosa può succedere fino al parto e durante esso e non tutte le metodiche di diagnostica prenatale sono certe al 100%. Accorgersi che, dopo tutto ciò che si è fatto, il bimbo non è sano o meglio perfetto, può portare a situazioni di abbassamento ulteriore dell’autostima nel non essere una buona madre e un buon padre. Così come sul ritardo mentale. Ciò che io verifico nella clinica è che il problema viene affrontato diversamente dal concepimento naturale, vuoi proprio per il dispendioso percorso emotivo e fisico affrontato a partire già dal non riuscire a concepire naturalmente, vuoi dal sentirsi colpevoli in maniera diversa per ciò che si è fatto.

46. Nel caso in cui si opti per un aborto cosiddetto terapeutico dopo essersi sottoposti a una serie di cicli, punture, monitoraggio delle ovaie etc… come reagisce la madre?

Reagisce in 2 modi opposti: ostinandosi al più presto a ricominciare, come nella ricerca del figlio sostitutivo – con tratti ossessivi-compulsivi – o chiudendosi completamente alla maternità aumentando i suoi disturbi ansiosi ma in particolare depressivi.

47. Le aspettative del contesto familiare, degli amici e dei parenti in generale, possono provocare nella donna una perdita di autostima nel caso in cui la fecondazione extracorporea non riesca?

Sì. Le domande su come vada, su come mai nessun figlio ancora, sui fallimenti, tendono a far chiudere la coppia in un isolamento dai propri familiari carichi di aspettative e da fratelli-sorelle-amici già con figli, riducendo ulteriormente la comunicazione non solo verso l’esterno per vergogna, colpa di non riuscire, ma anche verso l’interno della stessa coppia.

48. Sapere di avere uno o più embrioni crioconservati, magari all’estero, quale reazione emotiva scatena?

La reazione dipende dal momento della procedura a cui si è. Se non è andata in porto il tentativo precedente lo si vede come una speranza, anche pur dovendo ricominciare tutto da capo. Se si ha già un bimbo in braccio ci si pone domande sul che fare. Se intercorrono problemi di separazione della coppia, il vissuto in particolare della donna con un bimbo bloccato nel tempo in freezer, a cui non si può dare un grembo perché le normative lo impediscono o perché il partner non è consenziente e non resta che pagare l’affitto della provetta per anni o pensare che venga distrutto, è di un’impotenza rabbiosa unica che si manifesta nelle più varie modalità.

49. Quali conseguenze hanno sul padre l’utilizzo di queste tecniche artificiali? Che cos’è la sindrome del terzo escluso?

Anche per l’uomo ci sono dei problemi. In particolare non riesce a produrre il secondo campione di sperma anche dopo tre o quattro tentativi (Saley, 1990). Vi sono inoltre problemi di autostima, comprensibili all’umana ragione, se il problema di infertilità dipende da lui. È il trauma al narcisismo primario: un uomo che non riesce ad avere figli la prende in un certo modo, la donna la prende in un altro.

Nelle procedure della fecondazione extracorporea il potere di portare al concepimento o meno è delegato al medico o meglio al tecnico di laboratorio. È chiaro che il padre biologico si senta escluso. Ha donato lo sperma e poi si è dovuto ritirare in buon ordine. Le cose peggiorano, dal punto di vista psichico, quando oltre ai donatori di sperma e di ovuli esterni alla coppia vi è l’affitto dell’utero o la commissione del bimbo ad altra coppia. È chiaro che la mia esperienza non si basa solo sulle coppie che hanno fatto tutto ciò esclusivamente in Italia.

50. Quali sono le conseguenze psichiche per il bambino nato tramite fecondazione extracorporea artificiale?

Esistono innanzitutto tutte le conseguenze psichiche derivanti dai problemi fisici prodotti per il bimbo fin dalla nascita (per esempio i numerosi ricoveri ospedalieri per problemi di basso peso alla nascita, per parti prematuri, aumento del rischio di paralisi cerebrale, ritardo nello sviluppo mentale, aumento problemi polmonari, aumento rischio retinoblastoma, aumento mortalità perinatale, aumento mortalità neonatale, Sindrome di Beckwith-Wiedeman, Sindrome di Angelman).

Molti studi concordano sulla innegabile correlazione tra conseguenze neurologiche e conseguenze psichiche. B. Baile è quello che ha descritto nel suo ‘L’embryon sur le divan. Psicopatologie de la conception humaine’ (2003) nella maniera migliore ciò che è la sindrome del sopravvissuto sia in senso depressivo – senso di colpa ‘gli altri sono morti per farmi nascere’, che in senso narcisistico – senso di onnipotenza ‘io ce l’ho fatta perché sono il migliore’. Bisogna dire, per onestà, che molte ricerche affermano che non vi è nessun problema di tipo evolutivo salvo però affermare che i risultati ‘per ovvie ragioni’ devono essere comprovati dopo la pubertà, ma il loro studio si ferma al massimo ai 3 anni.

In Italia, una ricerca (Ceccotti 2005) evidenzia come realtà: scarso inserimento sociale e difficile rapporto con il cibo per i bambini; difficoltà del riconoscimento delle dimensioni negative nei figli, con pratiche di contenimento che rimandano ad un minore contatto affettivo; nelle madri si rivelano aspettative maggiori in merito all’obbedienza e all’accettazione del genitore da parte del figlio e i padri hanno un minor desiderio di ‘esposizione sociale’ da parte dei figli rispetto ai quali si sentono molto meno influenti in confronto agli altri genitori.

Tutto ciò però pone un quesito alle prossime generazioni non tanto e non solo per come i genitori debbano o non debbano dire e quando dire come sono stati concepiti questi figli, ma anche di relazione sulla loro identità se concepiti fuori dalla coppia.

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